Quattro città e nessuna sede

Quattro città e nessuna sede

Marco Zatterin / 6 novembre 2025

Commento n. 014/2025 NS

Anno 1958. Ecco come Bruxelles ha strappato all’Italia la capitale della Cee sfruttando la corrente alternata dei rapporti fra Roma e l’Europa

Il 6 gennaio 1958, un lunedì, il ministro degli Esteri Giuseppe Pella “transita per Torino” con il treno diretto a Parigi delle 22.45. Viaggia di notte verso la metropoli francese dove lo aspettano i colleghi che compongono il club dei Sei, formazione che il cronista della Stampa chiama “la Piccola Europa”, come fanno sempre dalle nostre parti e non solo. Firmato nel marzo precedente il Trattato di Roma che istituisce la Cee, ora Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi sono impegnati nel confronto che deve portare a un’intesa sul luogo che in cui dovranno riunirsi i loro rappresentanti e sul chi dovranno essere. È l’inizio di una partita a scacchi dalle quale la diplomazia nazionale uscirà come forse voleva, ma non bene come avrebbe potuto, perdendo un’occasione formidabile: quella di ospitare la capitale della giovane Comunità sulla quale sarebbe sventolata la bandiera con le dodici stelle.

Quella sera, nel gelo di Porta Nuova, il 56enne ex presidente del consiglio democristiano, scende dal vagone e rilascia alcune dichiarazioni ai giornalisti della carta stampata e della Rai. Sul marciapiede, a omaggiare l’uomo del governo giunto da Roma c’è il meglio della città, il prefetto e il questore, le autorità militari e anche il presidente della Fiat, Vittorio Valletta. Lui si presenta con tono perentorio, e assicura di essere portatore dell’offerta di “città prestigiose come Torino e Milano, oltre a Stresa e Monza”. Non solo. Senza concedere dettagli, promette che per gli incarichi europei “l’Italia presenterà nomi di particolare prestigio”.

Nella redazione di Via Roma, i cronisti della testata torinese non sono particolarmente impressionati. Pubblicano una breve notizia nella cronaca cittadina, col titolo “dichiarazioni di Pella sulla sede del M.E.C.”. Di fianco, a cinque colonne, si racconta la storia della signora Angela, moglie di un operaio della Lancia: “Non desiderava aver bambini e gli nascono tre femminucce”.

In realtà nel mondo della politica romana e delle relazioni internazionali c’è grande fermento e attesa per le decisioni europee. Il 17 dicembre 1957, qualcuno ha servito ai cronisti parlamentari una polpetta avvelenata. “La sede del Parlamento della Comunità europea e della Banca europea degli Investimenti verrebbero assegnate a Torino e Milano”, affermano fonti del governo.

Nell’articolo ci sono anche i papabili per i primi posti nelle istituzioni, due alla Cee, uno all’Euratom e alla Bei. Si assicura che, qualora si decidesse per il capoluogo piemontese, il quartiere principale della Cee sarebbe ospitato a Palazzo Madama, nella centralissima Piazza Castello. Dalla cronaca della Stampa trapela italico ottimismo, tuttavia si invita ad attendere l’anno nuovo. Il viaggio di Pella nella notte della Befana, appunto.

Il 7 gennaio qualcosa succede a due passi dalla Senna. Si sbloccano gli uomini, ma non le città. C’è accordo sul fatto che si debba avere una capitale unica, anche se il Lussemburgo dissente. La delibera geografica resta sospesa. L’inviato de la Stampa concede che “la posizione italiana è meno forte delle altre perché, mentre ogni Paese ha presentato una sola città, ed insiste su questa per metterne in luce i titoli particolari, l’Italia ne ha presentate quattro”. La mossa, si sussurra, indicherebbe che il governo non ritiene di doverla o poterla spuntare, e così “negozia per forma”. Il vero obiettivo, si assicura, è avere Pietro Campilli – 67enne di Frascati, dc, membro del Cln, più volte ministro - al vertice della Bei, missione che gli riuscirà.

La fumata bianca parigina indica nel tedesco Walter Hallstein il primo presidente della Commissione, del quale sarà vice Piero Malvestiti, marchigiano di 57 anni, democristiano. All’esecutivo accede anche Giuseppe Petrilli, 45 anni, dc napoletano, responsabile degli affari sociali destinato in un tempo non distante alla poltrona più alta dell’Iri. Campilli ottiene la Bei. La strategia è evidente. Roma pensa alla cassa più che agli effetti che l’Europa può avere sulla politica continentale e mondiale. Vuole influenzare i fondi destinati a finanziare il boom economico dopo la ricostruzione ed è pronta a sacrificare una quota di leadership. A Palazzo Chigi sperano di cavarsela, in qualche modo. Vogliono il tesoro, non il potere.

La questione delle sedi resta aperta. Per risolverla, e aggirare le proteste del Granducato, si decide di adottare un criterio di rotazione secondo il quale gli incontri di inizio 1958 saranno governati dall’ordine alfabetico. Si comincia dalla B, B come Belgio. B come Bruxelles, che resterà come capitale “provvisoria” per oltre trent’anni.

La disfida dura mesi. Il 21 giugno si riunisce a Strasburgo l’assemblea parlamentare comunitaria. I trentasei delegati italiani devono pronunciarsi su quale sia la migliore soluzione fra Milano e Torino (Stresa e Monza sono nel frattempo cadute). Ogni rappresentante europeo è chiamato a compilare una lista di cinque città e, sul fronte tricolore, c’è preoccupazione per il fatto che alla vigilia solo 22 dei nostri risultano essere giunti in Alsazia. Alla prova dei fatti risponderanno all’appello in trenta: diciannove per il capoluogo lombardo, otto per quello piemontese, tre astenuti. La città di Ambrogio resta dunque in corsa.

Il 22 giugno si pronuncia l’assemblea sul pacchetto complessivo. Trionfa Bruxelles (170 voti), seguita da Strasburgo (161) e Milano (151). I giornali sottolineano che la debolezza della candidatura italiana è stata favorita dai ranghi non completi dei nostri parlamentari. Robert Schumann, presidente del conclave, ricorda comunque che si tratta solo di indicazioni. Dietro le quinte la battaglia fra le capitali è furiosa.

Martedì primo luglio 1958, nuovo nulla di fatto sulla sede. A Bruxelles, i ministri degli Esteri non decidono e si danno altre due settimane, impegno che non verrà rispettato. Stavolta è l’Italia a chiedere il rinvio, visto che non c’è governo. Per noi tratta Attilio Cattani, diplomatico di lungo corso e delegato permanente presso l’amministrazione della Comunità che ha trovato una sponda solida nella Francia, dove un Charles De Gaulle appena risalito al governo si è persuaso che sia presto per deliberare e che la soluzione sia quella di prendere due anni di riflessione. Non c’è intesa sulla durata del congelamento, ma intanto lo status quo si consolida: Commissione a Bruxelles, il Parlamento a Strasburgo (invocato anche dai belgi che si smarcano in un abile match di equilibri a loro vantaggio) e il Consorzio carbo-siderurgico in Lussemburgo. La Bei, al momento, sembra ancora destinata a Milano.

Il 7 ottobre si riuniscono (a Bruxelles, ovviamente) i ministri dell’Euratom e del Mercato comune. Si riparla di sedi. I belgi si tengono stretto l’osso, sostenuti dai neerlandesi e con il parziale appoggio lussemburghese. La Francia batte i pugni sul tavolo per Strasburgo, ma dal retrobottega riemerge la volontà di De Gaulle di avere Parigi, per la quale – dicono le indiscrezioni – ci sarebbe il sostegno del cancelliere tedesco Adenauer. Le stesse fonti riferiscono che l’Italia sarebbe sempre in corsa per la Bei.

A metà dicembre, pochi giorni prima della pausa natalizia, il barometro segna ancora tempesta. “Più aperta che mai la gara per la capitale d’Europa”, titola la Stampa. A questo punto il drappello di testa è composto da Bruxelles, Strasburgo e Milano, anche se “sembra che la scelta possa cadere su una quarta città, Nizza”. L’Italia, a quanto risulta, sta facendo circolare l’alternativa Firenze. Ma non se ne parlerà più.

Per tutto il 1959 le riunioni ministeriali seguitano a tenersi a Bruxelles, di cui da noi si chiacchiera ai primi di luglio soprattutto per le nozze di Alberto e Paola Ruffo, celebrate dal borgomastro della città nel Palazzo reale, sede di rappresentanza del sovrano, e con rito religioso nella Cattedrale dei Ss. Michele e Gudula. L’Europa sembra stanca di ragionare sulle sue sedi e preferisce la precarietà di orientamento a una decisione divisiva. L’Italia continuerà a sperare sino all’8 aprile 1965 quando perderà anche la Bei, assegnata “provvisoriamente” al Lussemburgo. Soltanto nel dicembre 1992 si deciderà di renderla permanente, insieme con la Commissione esecutiva a Bruxelles. Il decollo del mercato unico con la piena applicazione delle libertà di circolazione richiedeva che si ponesse termine all’aleatorietà.

L’Italia porterà a casa poco e certamente meno degli altri, al netto della Germania che per ragioni di opportunità politica non intese avanzare candidature, in fondo il dramma del nazismo era stato archiviato appena 13 anni prima, ma incassò lo scranno del comando alla Commissione. Il 22 luglio 1959 si firmerà l’intesa che stabilisce a Ispra, sul Lago maggiore, il centro di ricerca nucleare che ne fa “la capitale atomica dell’Europa”. Niente di più.

L’analisi del negoziato per nomine e sedi regala il primo esempio della molteplicità di approcci con cui l’Italia ha sempre partecipato alla costruzione del progetto europeo, atteggiamento che ne ha spesso limitato il potenziale. A ben vedere, già agli albori della Comunità istituita in Campidoglio, abbiamo commesso tutti gli errori che caratterizzeranno il rapporto fra Roma e Bruxelles nei decenni successivi.

Sulle scelte delle persone, si poteva fare meglio. A parte alcuni, come Malvestiti, che resteranno nell’epopea bruxellese per la qualità del loro impegno e della loro visione, si vede già in quel momento quanto sia diffusa l’idea che un incarico in Europa non valga un posto in Patria. Campilli che nel maggio 1959 abbandona la Bei per il Cnel (!) è il prodromo della figuraccia di Franco Maria Malfatti, unico presidente della Commissione esecutiva a lasciare (marzo 1972) per candidarsi in casa. Ci furono danno e la beffa: eletto, non ebbe alcun incarico di governo.

Da allora, lo sciatto andirivieni con Bruxelles è stato costante, la classe politica nazionale ha puntato solo in pochi illuminati casi sui percorsi europei. L’alto numero di eurodeputati che si prepara a traslocare dall’Europarlamento per le prossime elezioni politiche è l’ennesima prova di una fede nell’Europa distratta e a corrente alternata. Errore grave: le storie di David Sassoli e Antonio Tajani dimostrano che il lavoro sotto la bandiera a dodici stelle è tutto meno che una secondaria perdita di tempo.

Il caso Campilli è anche il sintomo primordiale di un abbaglio che porta l’Italia preferire ciò che fa cassa, nella convinzione in genere errata di poterne controllare i flussi, a posizioni più strategiche. È stato ripetuto con la designazione dell’esperto Raffaele Fitto ai fondi Ue, pur sapendo che le decisioni sulla casa e sulla riforma della spesa sono condivise con il titolare del Bilancio e la presidente Von der Leyen. Nessuno si è mai chiesto se, ad esempio, non fosse una opportunità poter avere il Commercio estero o la Concorrenza.

Più grave ancora la manovra sulle sedi. Non si è saputo scegliere. Mentre gli altri cinque arrivano con un’unica candidata, l’Italia ne offriva quattro. È stata una scelta miope di gestione interna del consenso, conservata sino allo scontro finale, forse nella convinzione di non avere chance di spuntarla. Si è quindi tentato di recuperare con la Bei, della quale si è tuttavia conservata solo la presidenza, sino al 1970 (con Paride Formentini) e poi mai più. Sulla sede l’hanno spuntata i tosti lussemburghesi, in una partita di giro che gli ha fatto perdere Commissione e Parlamento, ma non il Consiglio che, tre mesi all’anno, transuma nel Gran Ducato. Per non parlare delle vittorie successive: il segretariato dell’euro-assemblea, la Corte dei Conti, la Corte di Giustizia (nata con la Ceca) e il Tribunale.

Ognuno avrà la sua preferenza, ma Torino era in quel momento l’opzione perfetta, un cantiere aperto per i lavori di Italia ’61, una ex capitale in pieno boom edilizio. Aveva il blasone, il dna amministrativo, il retroterra giuridico e universitario, il respiro globale, gli spazi su cui costruire.

Sull’asse Roma-Milano, il governo ha scelto altrimenti e ha perso. Bruxelles è montata in sella grazie all’ordine alfabetico e Bruxelles ci è rimasta. Si poteva fare di più. Ci si poteva battere per la città della Mole, posto che Milano era già capitale finanziaria in fieri. Sarebbe stata tutta un’altra storia. Perché non è affatto distopico, oggi, immaginare sulle rive del Po i palazzi comunitari, lungo il corso dove un tempo sfrecciava la monorotaia. Sarebbe stato bello e Torino avrebbe dato lustro al Paese. Ma ci voleva che fosse candidata da un Paese in cui la vocazione e i metodi avessero trovato una loro lungimirante coerenza.

*Consigliere Fondazione CSF

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